I "Ritratti fiscali" di Daniele Cima:
una decostruzione decorativa
di Andrea Schubert
Dopo la visita alla Triennale di Milano dove sono esposte le opere di Daniele Cima dal titolo un po' misterioso: "ritratti fiscali", consolido sempre di più la mia chiave di lettura dell'opera artistica di Cima, ed in generale dell'arte tutta. Sempre più mi convinco che il lavoro di Cima, e di tutti gli artisti in generale, sia un processo di decostruzione. Una decostruzione non distruttiva ma intesa come processo scompositivo del soggetto che non segue le regole con cui il soggetto è stato composto. La decostruzione segue un progetto proprio per perseguire un proprio scopo.
Sono grato a Cima che mi ha permesso di comprendere questa piccola verità che ha cambiato il mio modo di vedere ed aiutato a comprendere ed apprezzare tanti altri artisti, che già ammiravo ed apprezzavo, ma con un arricchimento del mio personale regime scopico di un nuovo elemento percettivo.
La vera epifania di ciò la ebbi visitando la sua mostra "Rising donkey". La scomposizione semantica della pagella, inserita in una mostra proprio nel luogo in cui quella pagella prese forma con un significato differente rispetto a quello datogli dalla sua successiva esposizione ingrandita, colorata, decorata con campiture rigorosamente mondrianesche, mi colpì profondamente.
Parlo di decorazione non in senso superficiale, cioè una semplice giustapposizione superflua all'ottenimento della sua specifica funzione atta solo a trovare il consenso nel pubblico, ma come di un qualcosa imprescindibile all'ottenimento della sua specifica funzione: il godimento estetico; quel godimento che lo sguardo trae dall'immagine attraverso il dispositivo ottico che gli è proprio, all'interno di un regime scopico personale dell'osservatore.
Forse quanto detto potrebbe essere considerato un gioco di parole inutilmente apologetico per chi vorrebbe relegare l'opera di Cima a semplice piacere decorativo, ma più passa il tempo e più mi ritrovo invischiato in un gioco mentale in cui il percorso di Cima mi fa da filo conduttore. Un filo di Arianna che io, novello Teseo, devo seguire per uscire dal labirinto costruito dalla vulcanica creatività di Cima e dalla mia propensione a complicare le cose semplici.
Tornando alla mostra e lasciando i perché ed i per come, non posso che parlare di altro rispetto alla mostra, così da poter parlare di Cima parlando di altri che non siano lui. Parlando di Andy Warhol, ad esempio. Al di là della semplice constatazione della comune provenienza professionale, la grafica pubblicitaria, vorrei sottolineare alcune convergenze estetiche.
Andy Warhol decostruisce la propria società , la società dei consumi, quell'American Way of life in cui i suoi genitori si sono proiettati da immigrati, viene presa, smontata nei suoi simboli iconici e ricostruita in una moltiplicazione sgargiante di immagini senza mezzi toni, di forte connotazione grafica. Warhol fa a pezzi il suo mondo, ne prende i brandelli e i brandelli diventano icone, feticci. I feticci quindi si moltiplicano all'infinito.
Andy Wahrol opera cos’ una decostruzione sia semantica che topica nello stesso tempo. L'esempio della decostruzione semantica l'attua astraendo l'immagine-segno dal significato comune e dandole regole nuove, trasformandola così in altro. La banconota da $1, per esempio. Oppure la sedia elettrica. La decostruzione topica l'attua quando riproduce delle scatole di detersivo per collocarle in una galleria. Una decostruzione già operata in passato da Duchamp e la sua fontana.
Non sembra quindi facilmente ascrivibile il progetto artistico di Cima ad un processo analogo, ma sottilmente diverso e maggiormente ironico?
La decostruzione semantica porta Cima a scomporre la propria pagella e, in una doppia traslazione topica riporta la stessa pagella nel luogo dove era stata emessa in altra forma ed altro contesto. Questa doppia traslazione che riporta l'oggetto sulla scena del crimine supera e sottolinea lo schema più di quanto abbiano osato fare sia Duchamp che Warhol ai loro tempi. Così oggi le codifiche e decodifiche dei voti attribuiti a delle competenze, in questa mostra vengono sostituiti da altri codici attribuiti a personaggi della nostra storia; ma il processo mentale che rimane sottostante alla formazione dell'immagine e che viene percepito dallo sguardo attraverso il colorato e geometrico dispositivo ottico che Cima ci regala, è il medesimo.
D'acchito gli arazzi di Boetti potrebbero essere il primo riferimento, come quello di Mondrian lo è già stato in precedenza, ma la cultura visiva che ci appesantisce fa di questi scherzi: riferimenti mnemonici per similitudini grossolane. Poi il clima surreale prevale. Le lapidarie frasi di Boetti perdono il loro senso poetico e diventano codici identificativi di individui. La sequenza Identità -codice-decodifica appare nella sua scarna trinità come il triangolo semantico (il segno è qualcosa-che sta per qualcos'altro-per qualcuno-in qualche modo) di una burocrazia banalizzante a cui Cima contrappone la ricchezza delle forme geometriche e dei colori del lettering che molto devono ad un Sotsass che precedentemente ha sdoganato la decorazione in ambito del design, costringendoci a ripassare Itten e Goethe.
Forse la Triennale non è il luogo più consono ad esporre questi ultimi "Ritratti fiscali". Forse in via Manin nei grandi saloni dell'Agenzia delle Entrate ci sarebbe stata maggiore chiarezza, come lo è stato esporre nella palestra della scuola la rielaborata pagella, ma va anche bene così.
Un ulteriore pensiero mi porta a vedere una fuga dionisiaca, da me indagata in una recente mostra, in queste lettere tutte diverse e mai uguali. Un confortevole ritorno all'infanzia ritrovato nelle costruzioni in legno con cui, in equilibrio precario, sul pavimento impilavamo triangoli-capriate su cilindri-colonne, costruendo templi o casette. Il vissuto confortevole rientra quindi come per altri grandi artisti. Qui la citazione di Koons è d'obbligo, ma mi astengo dall'approfondirla