Chardin. La realtà è una sublime illusione
di Luca Violo
Nell’approcciarsi al mondo lieve di Chardin si viene coinvolti, volenti o nolenti, da una serie di domande su cosa sia l’aspetto intimo del ‘sublime’.
Forse, l’arcadico mondo del Winckelmann è solo una voce, seppur imperiosa, a quell’idea di essere testimoni degli antichi. Nella sua vicenda di pittore di ‘storie minori’, ricorda antiche saggezze ed una quiete morale che conosciamo solo nei grandi storici della romanità decadente: quell’essere stoicamente consapevoli che la realtà è un’illusione governata dal caso umano. Watteau, superbo teatrante, ci narra di giochi di ruolo, di malinconiche maschere in giardini di pietre preziose. E quale emozione quei verdi smeraldo del Veronese maturo! O quegli ori e marroni spruzzati con gaia sapienza, del Rembrandt più dolce e supremo degli autoritratti, con quel ‘vero’ che è umana affezione, dolore dell’essere, terreno peccato, ma anche e soprattutto profondo verbo della coscienza come universo dell’espressione.
La realtà dei suoi ‘muti’ ambienti è qualcosa che par nascere dallo spirito. Non è la materia, seppur di qualità, che ci abbacina come un riflesso zenitale; non è neppure la composizione semplice, a scuotere il nostro mondo di immagini. È qualcosa di ineffabile, intimamente poetico che vive in quello spazio dipinto – forse, un’unica idea che si frantuma in tanti frammenti di verità ottica; o forse, quel famoso ‘diaframma’ di longhiana memoria, lente e specchio di una società morta nei costumi, ma viva negli spiriti.
Boucher e Greuze sono i bianchi leggiadri augelli di un’epoca di grandi movimenti intellettuali, ma il loro essere così addentro alla moda dell’accademia li lascia felicemente invischiati in quel breve scorrere di decenni. Nel suo silente operare Chardin passa oltre, giungendo alle soglie del XX secolo come sommo testimone del valore recondito delle cose. È un ‘qualcosa’ che prima di lui era stato di Veermer. È la capacità di rendere visibile il ‘sublime’ dall’immutabile compiersi di una quotidianità semplice ma eterna.
Sarà Giorgio Morandi, tre secoli più tardi, il testimone di questi messaggi, di questa quiete illuminata, di questo coraggio ad essere coerenti con le proprie idee. In lui, nasce e vive immensamente una beata solitudo che non è dispotica arroganza, bensì sofferto percorso alla ricerca di risposte ad un’illusione breve ma eterna: la vita. Il ‘sublime’, forse, è riposto nella quotidiana luce che governa le nostre idee. Allora come adesso.
In copertina: Jean Baptiste Simenon Chardin, Autoritratto, Parigi, Museé du Louvre