Alla ricerca del canone perduto: costruire i codici
di Maurizio Barberis
“…Se dunque è questa, mio caro Carmine, la fenomenologia dell’amore, tu dovrai riconoscere nella creazione artistica il momento di massima autonomia della coscienza: rappresentare se stessa nell’istante medesimo in cui si pensa…” ( Cesare Brandi, Carmine o della pittura)
Attraverso la determinazione di una serie di codici la visione diviene il modo della trasposizione dell'in-visibile nella sua quiddità fenomenica.
Attraverso la decodificazione dello stimolo, attraverso la sua razionalizzazione, possiamo ottenere una prima possibile configurazione dell'esperienza.
E' grazie ad un canone codificato che possiamo trasformare l’intuizione in visione e la visione in pensiero, è grazie a un codice condiviso che l’oggetto della rappresentazione esce dall’anonimo sfondo del mondo fenomenico e si fa cosa, percetto, così come la grammatica e la sintassi consentono alla nostra scrittura di trasformarsi in pensiero (e viceversa).
L'in-visibile è pertanto quella condizione del conoscere sensibile che si pone un’istante prima dello svelamento del senso, palese o occulto, dell’immagine stessa.
E' dunque la razionalità una forma di configurazione che traduce la massa polimorfa degli stimoli in una sensazione precisa e sua volta questa in pensiero, in logos, qualcosa che ci consenta non solo di comunicare ciò che percepiamo, ma anche di manipolarlo, di gettarlo oltre (pro-meteo), oltre ciò che stiamo 'provando' grazie allo stimolo visivo. La razionalità dei linguaggi è dunque un accomodamento, un compromesso con gli infiniti possibili che fluiscono scorrendo davanti al nostro sguardo.
In-visibile è ciò che sta prima della creazione, dell'atto demiurgico del separare (ratio) la luce dalle tenebre, la terra dal mare, e diviene visibile solo grazie al segno, alla delimitazione compiuta dalla linea usata dal pittore per separare i campi della visione, confusi dalla massa cromatica. Perché il colore sta dalla parte dello stimolo, dalla parte dell'in-visibile che confonde lo sguardo razionale del progetto. Le bianche e terse case costruite dal razionalismo della linea testimoniano questa radicale antipatia per il colore e per le sue immotivate seduzioni linguistiche.
Perché dunque visibile e in-visibile? Queste due condizioni postulano la condizione necessaria che separa ciò che può essere determinato da un codice da ciò che non può e non potrà mai esserlo. L'in-visibile appartiene al lato oscuro della Forma, la Lilith che non vuole essere afferrata dalla regola, dalla norma che porta alla luce, ma rimane solido monito della soglia, della permanenza del in-conoscibile, qualunque sforzo si faccia per sfumarne i bordi ignoti. Il problema del codice, della norma, riguarda per altro, soprattutto le qualità estetiche di un artefatto, la possibilità di rendere immanente, attraverso il numero, attraverso un elemento misuratore, le virtù ‘trascendenti’ della pura sensazione. Come nel caso delle aure porte di Florenskij, dove l'idea di Icona, commisurata a un Canone, giunge a un principio universale che ne illumina la Forma Eterna.
Il Canone ci consente di esplorare l'irrazionale, l'invisibile, usando il codice come 'il cieco usa il bastone', per parafrasare Cartesio, al fine di ricondurre, addomesticata, la natura della verità ontologica all'interno dei nostri limitati confini fenomenici. Il concetto di Canone riflette in questo caso l'idea che l'esprit metafisico possa essere commensurabile, uniformato al sacro principio regolatore della coscienza del divino. Grazie a ciò ritroviamo di fronte a noi l'idea di 'verità ontologica', possibile in quanto percepibile, in quanto soggetto attivo della nostro cosmo estetico.
Il problema che ci poniamo è dunque: quale l'organo, il sensorium, che, codificato, ci consente la percezione della natura ultima dell’essere? Sicuramente la vista, potrebbe rispondere qualcuno. E perché non il suono, il tatto, l'odore, il sapore e così via ? Perché dunque proprio questo senso, che ci descrive la lontananza, assumendo periodicamente il valore di fondazione, attraverso i codici interpretativi, di ciò che questi stessi codici negano, cioè della dimensione assoluta dell'essere. La tattilità dello sguardo, la prensilità della visione, ci consente una robusta presa di posizione nei confronti delle cose che si sottopongono al nostro giudizio, testimoniando forse di quell'ansia di infinito, che la visione riassume nell'impossibile percorso verso l'Altro.
Così la vista, associata alla luce, appare subito elemento di forte rilievo metafisico. La vista, tra gli organi di senso, è non solo il più importante, ma anche quello con il maggior grado di autonomia dall’oggetto percepito, quello che ci consente di vedere anche in assenza, solo grazie all’ausilio della memoria. E la luce appare come la più evanescente tra le metamorfosi della materia. Pur sempre materia, materia consustanziata, immanente alla nostra condizione di esilio spirituale. Ecco quindi il senso di una corretta visione. Accedere alla verità, intendendola come senso ontologico, come significato ultimo celato dietro la natura manifesta delle cose. Vedere dunque è anche e soprattutto percepire l'invisibile manifestazione del cosmo. Attraverso il sensorio della vista siamo nella condizione di rendere fenomenicamente percepibile sia il visibile che l'in-visibile.
E' la struttura dell'organum che ci aiuta. Struttura che comprende, naturalmente, la sua forma neurofisiologica, ma anche i codici e le norme attraverso cui traduciamo in materia comprensibile il caotico fluire degli elementi. La forma ‘simbolica’, quella particolare funzione dell'organum attraverso cui ci apriamo finalmente all'intuizione dell'invisibile, ai suoi codici, ai suoi valori linguistici, assume corpo, 'carne e ossa', grazie alle possibili e infinite configurazioni del visibile, per comporre la sintesi suprema dell'oggetto sfuggente.
Così codice e azione lavorano all’unisono nel verso di una apertura che delimiti la forma, per definire un infinito possibile, un infinito 'buono', accessibile all'atto della comprensione.