Prima che sorga il sole

Note in margine all’ultima Biennale d’Arte veneziana (2019): per un nuovo umanesimo?

di Maurizio barberis

May You Live In Interesting Times’, un’antica maledizione cinese, si trasforma nel titolo-tema della 58° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Ma si tratta davvero di una maledizione, o non piuttosto di un destino, quello di un’arte ormai condannata ad essere per  sempre contemporanea?

L’arte non è mai nel presente, ma per un sua tragica ma molto umana condizione, sempre proiettata nel futuro. I tempi più difficili sono sempre quelli che ci aspettano, quasi mai quelli che stiamo vivendo, soprattutto nell’età dell’ansia. Vivere in tempi difficili, live in interesting times, è comunque un buon viatico per sacrificare il senso, il significato e il ruolo dell’arte, sull’altare delle convenzioni politiche e culturali di una manifestazione che sembra delegare a un futuro prossimo ma mai venturo le possibili riconciliazioni tra mondi diversi, l’auspicabile rinascita di un’estetica non più legata alle espressioni umorali e coercitive dell’ego autoriale, ma ad un pensiero collettivo che voglia rifondare un mondo di speranza e di pace per l’uomo su questo pianeta. Un nuovo umanesimo, appunto.

Maurizio Barberis, Prima che sorga il sole, Giardini della Biennale, Venezia, 

Maurizio Barberis, Prima che sorga il sole, Giardini della Biennale, Venezia,

 

Il titolo dato alla 58° esposizione Biennale d’Arte dall’allora curatore, l’inglese Ralph Rugoff, non faceva presagire nulla di buono all’orizzonte delle nostre speranze, e i fatti ce l’hanno confermato. Esibiva, sotto l’ombrello di un cosmopolitismo un po’ datato, tutte le contraddizioni e i conflitti etnici, culturali, ideologici, tecnologici e strategici di una società dominata dall’ansia demagogica del si salvi chi può. L’arte, quindi, usata, per l’ennesima volta, come una sorta di refugium peccatorum, cartina di tornasole delle possibili e future deviazioni dal nostro sistema culturale.

Maurizio Barberis, Prima che sorga il sole, Giardini della Biennale, Venezia,

Maurizio Barberis, Prima che sorga il sole, Giardini della Biennale, Venezia,

Ciononostante l’arte ci prova lo stesso e gli artisti, forse più sensibili dei Curatori, non hanno voglia di rinunciare al ruolo vagamente demiurgico che questa società di disperati vuole loro affibbiare. Riflessione, si suppone, ma anche critica dell’esistente, ruolo che l’arte moderna o contemporanea assolve da almeno un secolo, ovvero dalle prime provocatorie manifestazioni dadaiste in quel caffè svizzero dal nome cosi paradigmatico.

Maurizio Barberis, Prima che sorga il sole, Giardini della Biennale, Venezia,

Maurizio Barberis, Prima che sorga il sole, Giardini della Biennale, Venezia,

Ma una critica senza un progetto è solo un urlo disperato nel deserto che l’umanità sta attraversando. Dopo un secolo di avanguardità, di ricatti culturali in nome del dio progresso, non basta più distruggere l’esistente, che poco ne è rimasto, ma forse è arrivato il momento di proporre soluzioni o più semplicemente strade, vie, percorsi alternativi che possano davvero valere il costo del biglietto di ingresso. La semplice idea che ‘tutto sia connesso’ non può certo bastare a giustificare l’esistenza di un sistema che, per lo meno in Italia, in anni forse più ameni e meno ‘interesting’, ha prodotto una massa d’urto impressionante, in grado di condizionare non solo il mercato dell’arte, bensì tutto il sistema di produzione di immaginario, moda design e industrie associate, al netto di alibi socio-culturali o neo-tecnologici.

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Certamente è più difficile cogliere il fil rouge che in questa manifestazione ci poteva consentire, al di là delle apodittiche affermazioni dei curatori, di interrogarci su ciò che alimenta il nostro pensiero, astratto o quotidiano, e sul fatto che davvero l’arte aiuti, in questo momento e con queste premesse, a superare i nostri limiti categoriali. Ma quali sono le tipologie di pensiero a cui il pubblico dell’arte si adegua per trarre giudizio e linfa dall’opera? Per aver un’arte che che si colloca nelle faglie dei nostri pregiudizi, bisogna avere quantomeno dei pre-giudizi, il primo dei quali, ahimè, riguarda l’impellente necessità di definire, in qualche pur vago modo, l’essenziale utilità di un’arte che non sia riconducibile ad una pura e semplice koinè culturale.

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“…May You Live in Interesting Times sarà fondata sulla convinzione che la felicità umana deriva da conversazioni reali, perché in quanto animali sociali siamo spinti a creare, trovare significati e metterci in relazione l’uno con l’altro. In questa luce, la Mostra si proporrà di sottolineare l'idea che il significato delle opere d'arte non risiede tanto negli oggetti quanto nelle conversazioni…la Biennale Arte 2019 aspira a questo ideale: ciò che più conta in una mostra non è quello che viene esposto, ma come il pubblico possa poi servirsi dell'esperienza della mostra per guardare alla realtà quotidiana da punti di vista più ampi e con nuove energie…”

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E’ quindi forse l’opera d’arte, almeno in questa occasione, ma forse anche in un contesto più ampio di quello offerto dalle Biennali, un “objets à réaction poètique”, definizione data da Le Corbusier nel lontano 1931 e condivisa da un certo numero di esponenti delle avanguardie surrealiste?  Certo è passato quasi un secolo da allora ed è dunque solo sulla capacità di coinvolgimento emotivo di un’opera che possiamo ancora porre le nostre ipoteche sulla sua reale qualità? Ma se l’opera, come ci ricorda il curatore, ‘prenderà sul serio il compito di indagare cose di cui non siamo già a conoscenza – cose che potrebbero essere off-limits, sotto traccia o inaccessibili per varie ragioni…..opere d'arte che esplorano l'interconnessione fra fenomeni diversi, opere affini all'idea ….che ogni cosa è connessa con tutte le altre.,’ tutto ciò  non dovrebbe avere solo un côté emozionale ma anche e soprattutto un nesso simbolico, in grado di attingere agli strati più profondi della natura umana, e quindi parrebbe giusto, in quest’ottica, attivare un contesto ecclesiastico (la sacralità della Mostra), laddove l’opera, posta sul libero piedistallo del mito, possa dialogare con le nostre aspettative più banali o, viceversa, con quelle spiritualità che sole sono in grado di cogliere i significati più riposti del lavoro di un artista.

Ma per capire davvero il valore di un’opera bisogna avere il coraggio di toglierla dal piedistallo del mito e porla al confronto della vita quotidiana, in tutte quelle situazioni in cui l’unica aura a disposizione è quella dell’opera stessa. Solo allora la verità dell’arte potrà tornare a risplendere di luce propria, priva di quelle condizioni auratiche che la Chiesa Curatoriale gli pone attorno, per tornare a parlare il linguaggio degli uomini, di tutti gli uomini, di ogni razza e nazione. Per un nuovo umanesimo.