Beatrice, Laura, Curzia: se l’amore è cosa bella mortal
di Michela Davo
Senza la morte di Beatrice e Laura, donna angelo la prima, per così dire cavalcantiana la seconda, alcune tra le più belle pagine della letteratura italiana non sarebbero state scritte.
Di giovinezza vestite, dagli occhi passate ai cuori dei poeti, hanno rappresentato, con la loro apparizione e il loro trapasso, il momento focale a partire dal quale si sono mosse le vicende tanto emotive quanto poetiche di Dante e Petrarca. Se il primo l’ha narrata in vita e in morte (Vita Nova) per poi raccontar di lei con parole mai usate prima, riconoscendole un ruolo beatifico (Commedia), Petrarca si è tormentato per tutta una vita attorno alla drammatica sensualità di un amore per una cosa bella mortal, destinata alla caducità e alla fine.
Ma, in entrambi i casi, il poeta ha assunto il ruolo di amante, osservatore, sopravvissuto e, infine, cantatore. Sulla scia di un così portentoso magistero, non si può non notare come nelle ottave dedicate agli ultimi sospiri della Clorinda tassiana, morente per via del colpo inflittole da Tancredi, figuri una variatio sul tema della fenomenologia amorosa tipica della scuola siciliana: amore – che, è opportuno ricordarlo, aveva già colpito il guerriero – attraverso la voce, e non gli occhi, rinnova l’immagine dell’amata nel suo cuore («[…] Un non so che di flebile e soave / Ch’al cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza, / E gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. […]»). Erminia, sotto le cui spoglie si celava lo stesso Tasso, come ricordato da Donadoni e poi da Praz, rivendicherà il desiderio di morire per mano di Tancredi, forse desiderando, in tal modo, assurgere al ruolo di nuova donna, terza in ordine di successione.
Denis de Rougemont, sollevando un sottile velo, intriso di miti e narrazioni, tentativi di nascondimento, ha portato alla luce la peculiare caratteristica dell’Occidente, ossia quella di amare l’amore ben oltre l’oggetto d’amore (si pensi al Canzoniere di Petrarca, il cui sonetto proemiale rimanda all’amore e all’Io del poeta che ama, non a Laura, oggetto d’amore), sospingendosi incessantemente e senza rimedio entro i confini del dolore e della disincantata sofferenza: il velo ricorda quello del Cristo Velato di Sanmartino, parte integrante del corpo, solo apparentemente dotato di indipendenza. Che cosa sia amore, come lo si possa definire, va da sé, è una domanda che non ha mai potuto darsi una risposta certa. Ce n’è una splendida, però, di Pier della Vigna, che, in una celebre tenzone con Jacopo Mostacci e Giacomo da Lentini lo paragona al potere di una calamita, invisibile, ma in grado di attrarre a sé («[…]. Per la vertute de la calamita/ como lo ferro at[i]ra no si vede, / ma sì lo tira signorevolmente; […]»): leggendo le trenta lettere scritte da Salvatore Quasimodo a Curzia Ferrari si ha l’impressione che vi sia un terzo protagonista, una forza arcana che renda impossibile all’uomo ogni atto di liberazione da quel calamitico legame.
Nella prima lettera inviata a Curzia, il 21 luglio 1963, da Milano, Quasimodo nel suo sospiro «[…]. Avrò forse la tua voce prima di partire. Poi il silenzio, o qualche sillaba nello spazio. […]» (Lettera 1) sembra aver già compreso, con lucida preveggenza, il destino di quella travolgente passione, una corrida, ancorata alla vita e alla morte. Curzia e Salvatore si incontrano per la prima volta nel marzo del 1963 a Milano, al Circolo della Stampa. Lei era giovane, sposata, agli inizi della sua carriera, mentre lui da anni percepiva l’ombra della vecchiaia calare su di sé: i passaggi di alcune lettere inviate agli amici depongono a testimonianza. Per un poeta che ha fatto della parola cuore una ricorrenza nella sua opera sarà forse parso uno strano scherzo del destino restare vittima di infarto, a Mosca, trovarsi con un cuore rotto: a Curzia, in una lettera scritta a Varazze, il 9 agosto 1967, dirà «[…]. Ti amo, ti amo, cuore dolcissimo. E ho desiderio di amarti fino al cuore rotto. […]» (Lettera 25). I toni cupi e angosciati di un uomo terrorizzato all’idea di perdere l’oggetto d’amore, probabilmente perdersi in quanto soggetto amante, così diverso dal poeta che è stato, tornano frequentemente nelle parole scritte per la verde donna, vita e giovinezza, memoria e ricordo che sembrano reali per un breve attimo, concedendo una fugace e momentanea fuoriuscita dall’esile tempo rimasto: «Mi sorprendo a distruggere il tempo con la tua immagine forte nell’aria» (Lettera 5), le dirà da Messina, il 28 maggio 1965. Quasimodo si aggrappa prepotentemente a questo amore giovane, necessariamente destinato dal giogo del tempo a un addio precoce (dirà, nell’ultima lettera, la numero 30: «[…]. Ma i tempi della vita non coincidono mai […]»), e lo fa come se stesse chiedendo alla vita stessa, impersonificata da Curzia, di non abbandonarlo: la Sicilia, in qualche modo l’unico luogo che, rievocato, assurge a un ruolo in queste lettere, è un’Arcadia disincantata, in cui il tempo ha fatto il suo ingresso e macera, passo dopo passo, quel che della vita rimane: «[…]. Tu bruna e bruciante nell’attesa «guardi» questo mio silenzio da una terra lontanissima. […]» (Lettera 5).
È peculiare il fatto che la maggior parte delle lettere scritta a Curzia sia collocata in estate (tredici lettere datate luglio, tredici agosto, due maggio, una ottobre e una gennaio): senz’altro non bisogna dimenticare le ragioni vacanziere e familiari – Curzia, oltre che sposata, era madre di due bambini – che hanno imposto la loro distanza nei giorni del sol leone. Tuttavia, nelle uniche due lettere primaverili, quelle di maggio, siciliane, Quasimodo ricorda che «[…]. C’è caldo e un soffio di scirocco. […]» (Lettera 4), quasi a imporre la stagione del suo animo, un’ultima estate, sopra a quella atmosferica. Non parla di primavera (parlerà di sé come «[…]. Pianta senza «fiori», lontano da te», lettera 16), stagione da sempre cara ai poeti e all’amore, bensì di un’estate «veramente» disperata (Lettera 12, da Loano, 26 luglio 1966). Non è più il tempo dei fiori e delle danze, ma del sole cocente e, giocando con le parole di un suo antico verso, tacitamente racconta di sapere che inverno lo attende: «Finirà anche l’estate nel fermo cuore» (Lettera 12, fermo in corsivo nel testo originale).
L’ultima lettera riporta la data 5 gennaio 1968, Milano. Quasimodo morirà nel giugno dello stesso anno. Scrive dal cuore dell’Averno: «[…] domani ti avrò, sarai qui tra le mie braccia che mordono il vuoto e non sanno altro se non il desiderio di stringerti fino alla morte. […]» e, poco più avanti: «[…] e io darei qualsiasi cosa per tornare indietro e ricominciare tutto nel tuo cuore adorato […]»: non è più tempo per il fermo cuore, la cui «[…] forza un po’ «delicata». […]» (Lettera 22) è oramai quasi vinta.
A Napoli non moriranno Beatrice e Laura, ma il poeta. Quel che resta, dopo tanti velluti e pugnali, è il cuore di Curzia, e pare di sentire l’antico motto di un sogno riecheggiare, risorto: «Vide cor tuum».