L’antiquario, il collezionista, e l’utopia del museo ideale

di Luca Violo  

Osservando il meraviglioso ritratto di Jacopo Strada che Tiziano dipinse nel 1567-68, oggi conservato al Kusthinstorisches Museum di Vienna, non vediamo solo l’omaggio dell’artista al proprio mentore e amico, e soprattutto uno dei protagonisti del mercato antiquario cinquecentesco – personalità che era insieme studioso, pittore, architetto, orafo, numismatico, scrittore, collezionista e perfetto cortigiano – ma troviamo una risposta che è immagine e sostanza al quesito.

Tiziano, Ritratto di Jacopo Strada. Vienna, Kunsthistorisches Museum © Courtesy Kunsthistorisches

Tiziano, Ritratto di Jacopo Strada. Vienna, Kunsthistorisches Museum © Courtesy Kunsthistorisches

Un personaggio dalle infinite sfaccettature che l’Imperatore Rodolfo II d’Austria nel 1558 accolse a corte in qualità di mercante di antichità, direttore del tesoro imperiale e manager d’artisti, tra i quali il Tiziano, che ritrae l’illustre personaggio con stupefacente vivezza espressiva e cromatica e con una maniera, quella della maturità, che alle apollinee fattezze contrappone forme sfaldate dalle emozioni del colore. È il sogno senza tempo di ogni antiquario, un mecenate curioso e infaticabile come Rodolfo II; che nel rapporto con Jacopo Strada vedeva non solo il tramite per soddisfare i propri capricci d’arte, ma anche uno spirito con cui condividere la medesima passione per la bellezza. Un’affinità elettiva che aiutavi entrambi ad una crescita umana e culturale. Il concetto di collezione d’arte ottocentesca legata alla funzione d’arredo che intende inserire le opere ad uso di una ricostruzione storica – come ad esempio questo incantevole museo che Gian Giacomo Poldi Pezzoli trasformò dal 1850 in poi da appartamento privato a spazio museale, dove le sale erano ispirate ai vari stili del passato, dal medioevale al barocco, dal rinascimentale al neogotico – si protrae in forma meno esasperata nel collezionismo del dopoguerra, che predilige arredi legati al territorio e alla radice della propria tradizione, anche se prevalente è negli anni Cinquanta il Settecento veneto con trumeau e cassettoni laccati e delicati paesaggi del Canaletto, Guardi e Bellotto.

Il boom economico e lo sviluppo dell’Autostrada del Sole favorisce il week end antiquariale, laddove fioriscono centinaia di mercanti più o meno preparati, pronti ad accogliere entusiasti neofiti in cerca di trouvailes. Le grandi case d’asta internazionali non sono ancora sbarcate in Italia e la diffusione dei loro cataloghi è sporadica. Il mercante degli anni Sessanta è ancora il referente privilegiato, anzi unico, del collezionista, mentre la casa d’aste fornisce prevalentemente all’antiquario la materia prima, spesso ancora da vagliare e attribuire correttamente. Certamente vi sono già collezionisti avveduti, ma costituiscono una minoranza, che esplorano campi meno battuti della storia dell’arte, seguendo talvolta le più aggiornate scoperte della critica (citerò solo a titolo di esempio la raccolta Saibene di Milano o quella di Molinari Pradelli di Bologna). A questa categoria di eruditi raccoglitori si rivolgono alcuni giovani mercanti, che all’innato istinto, indispensabile in questa professione, uniscono una volontà maggiore di studio e approfondimento delle opere trattate, che perseguono anche grazie ai rapporti amichevoli e di mutuo scambio di informazioni con gli studiosi più autorevoli. Oggetti d’arte dicevo, che amano trattare come opere autonome, valorizzando caso per caso, e che relegano l’arredo ad un ruolo di secondo piano. Tra questi mercanti voglio ricordare Ettore Viancini a Venezia, Fabrizio Apolloni a Roma, e Sandro Orsi a Milano. Chi ha avuto la fortuna di frequentare le loro gallerie, le ricorderà come salotti dove si potevano incontrare le persone più disparate, l’industriale, il critico d’arte, il letterato, occupati per ore a discutere dell’ultimo bronzetto rinascimentale entrato da poco in bottega. Questo breve ricordo non voglia sembrare un rimpianto per un’età dell’oro oramai passata. Il peggior difetto per chi tratta arte antica è quello di amare e rimpiangere il passato in quanto tale. Così è per l’opera d’arte, che non deve essere amata perché antica: l’epoca, per quanto lontana non costituisce un valore ma un fatto, e tutti gli oggetti sono stati alla loro creazione contemporanei. Per concludere il nostro excursus su come è mutato il mercato antiquariale negli ultimi sei decenni, e arrivando ad anni a noi più vicini, gli anni ottanta si sono caratterizzati per un’attività dinamica, direi quasi frenetica, per la velocità con cui si passava dal comprare al vendere, magari nell’arco della stessa giornata. Gli anni Novanta hanno visto affermarsi il binomio arte come investimento, a scapito di un valore non più intrinseco, e dove epoche e artisti venivano trattati come blue chips che vivacizzano patrimoni spesso sconfinati. Un decennio di sofferenza dell’arte antica e del ruolo dell’antiquariato, a fronte di un exploit degli impressionisti prima e del contemporaneo poi, che giocavano sul trend del momento, sull’impatto mediatico ed economico del collezionista, sul valore iconico dell’opera come veicolo di realizzazione sociale, rispetto ad un bacino, che per quanto grande, era e rimarrà di nicchia e autoreferenziale. Bisogna altresì sottolineare che alle regole auree di qualità, provenienza e stato di conservazione, è fondamentale in una società della comunicazione globale come è quella contemporanea, che l’opera sia iconica, ovvero che raccolga in sé il maggior grado di riconoscibilità espressa al livello più alto che dell’artista si conosca: a questo proposito vorrei portare qualche esempio paradigmatico del concetto sopra espresso.

Andrea Mantegna, Discesa al limbo, Sotheby's, New York, gennaio 2003 © Courtesy  Sotheby’s

Andrea Mantegna, Discesa al limbo, Sotheby's, New York, gennaio 2003 © Courtesy  Sotheby’s

Iniziamo con la Discesa al limbo di Andrea Mantenga, un tema assai raro nella cultura occidentale che il maestro cristallizza in un olio di piccolo formato (38 x 42 centimetri) e databile alla prima metà degli anni novanta del Quattrocento. Fu commissionata da Francesco Gonzaga mecenate tra i più influenti, insieme alla moglie Isabella d’Este, della carriera artistica dell’artista padovano. L’opera è presente nell’inventario della collezione di Ferdinando Carlo Gonzaga, ultimo duca di Mantova, nei primi anni del Settecento, per poi passare nel 1770 nella raccolta di Jacopo Marchese Durazzo, Imperial Ambasciatore della Repubblica di Genova a Venezia, e infine acquistata, nella prima metà degli anni trenta del Novecento da Sir Stephen Courtauld, fratello minore di Sir Samuel, fondatore del Courtald Istitute and Gallery di Londra. Mirabile nella fattura, esemplare nella storia delle provenienze, in un perfetto stato di conservazione, non stupisce che nel gennaio 2003 da Sotheby’s a New York abbia realizzato oltre 28 milioni di dollari.

Michelangelo, Studio per una donna che piange, Christie's, Londra, luglio 2001 © Courtesy  Christie’s

Michelangelo, Studio per una donna che piange, Christie's, Londra, luglio 2001 © Courtesy  Christie’s

Due anni prima, nel luglio 2001, compare sempre da Sotheby’s, ma questa volta a Londra, un rarissimo e travolgente disegno di Michelangelo, raffigurante lo Studio di una donna che piange. Databile ai primi anni del Cinquecento, fu scoperto quasi per caso nella biblioteca di Castel Howard, suntuosa residenza di Henry Howard, IV conte di Carliste, situata nelle incontaminate campagne del North Yorkshire. Inedito al mercato da oltre duecento anni è stato battuto per 5.943.500 sterline.

 Raffaello Sanzio, Testa di una musa, Christie's Londra, dicembre 2009 © Courtesy  Christie’s

 Raffaello Sanzio, Testa di una musa, Christie's Londra, dicembre 2009 © Courtesy  Christie’s

Rimanendo nello stretto campo dei disegni antichi, un’incantevole Testa di musa di Raffaello, preparatorio alla realizzazione ad affresco nel 1511 del Parnaso (nella parete nord della Stanza della Segnatura in Vaticano), nel dicembre 2009 da Christie’s a Londra ha superato con irrisorio slancio i 29 milioni di sterline, seconda aggiudicazione di sempre dopo i quasi cinquanta della Strage degli Innocenti di Peter Paul Rubens.

Badminton Cabinet, 1725, Christie's Londra, dicembre 2004© Courtesy  Christie’s

Badminton Cabinet, 1725, Christie's Londra, dicembre 2004© Courtesy  Christie’s

Infine il Badminton Cabinet, un assoluto capolavoro dell’arte ebanistica fiorentina del Settecento. Nel 1990 Barbara Piasecka Johnson – erede della multinazionale cosmetica – per farlo suo spese 8 milioni e mezzo di sterline. Quando ricomparve da Sotheby’s a Londra, nel dicembre 2004, fu acquistato dal Principe  Hans Adam II di Liechtestein per 14 milioni, un investimento importante, ma comprensibile per un collezionista che nei suoi intenti onnicomprensivi sembra rinverdire lo spirito di Rodolfo II. Una passione a rendimento costante e sicuro, che nei 14 anni trascorsi tra la prima e la seconda apparizione ha avuto un incremento del 121%, vale a dire un 8,7% annuo, che nella grande stagione degli investimenti avventati degli anni Novanta è un dato di rassicurante consistenza. Un’opera unica delle arti decorative, ma in assoluto un caposaldo dell’ingegno artistico di ogni tempo, che insieme alle opere che vi ho appena mostrato sono immuni da mode, oscillazioni del gusto, speculazioni di ogni genere. Oggetto meraviglioso che nel caso del Principe del Liechtestein ha avuto come destinazione finale il Museo di famiglia a Vienna, anche se più frequentemente un oggetto o delle collezioni possono presentarsi in forma di lascito o donazione.

Orologio da tavolo con astrolabio, Collezione Bruno Falck, Museo Poldi Pezzoli, Milano © Courtesy  Museo Poldi Pezzoli

Orologio da tavolo con astrolabio, Collezione Bruno Falck, Museo Poldi Pezzoli, Milano © Courtesy  Museo Poldi Pezzoli

Nel caso specifico del Museo Poldi Pezzoli come non citare la straordinaria collezione di orologi meccanici e strumenti scientifici di Bruno Falck. Un’eccezione nel panorama italiano, ma il Poldi Pezzoli è un prezioso e incantevole museo privato, che nella gestione e nei rapporti con antiquari, collezionisti e istruzioni, applica un management di impronta anglosassone, che alla contrapposizione dei ruoli preferisce una dinamica contaminazione, con l’auspicio – come nel caso dei grandi musei americani – di donazioni di collezionisti che hanno condiviso con il direttore, i curatori dei dipartimenti, scelte, gioie e a volte angosciosi dubbi. Incertezze che nascono da una sostanziale divaricazione dei valori economici di un’opera, tra le stime di una casa d’aste e le valutazioni di un antiquario: la prima, capace di un’informazione globale, diversificata e capillare, con budget in linea con una dimensione multinazionale; il secondo con un ruolo di advisor, che filtra, sceglie e studia ogni oggetto con approfondito scrupolo che richiede del tempo, quello che manca alle cattedrali della vendita all’incanto che si muovono simultaneamente sui cinque continenti. Sicuramente tra i fenomeni che più hanno mutato il ruolo del mercante e del trattare l’arte antica, sono la nascita e l’affermarsi delle grandi fiere antiquariali, come la Biennale di Firenze, il Tefaf di Maastricht, e altresì il successo dei siti di analisi del mercato dell’arte su base statistica, come ad esempio Artnet e Artprice, che aiutano ad collezionismo più informato, anche se i criteri di indagine possono risultare assai ardui ad un pubblico meno smaliziato. L’antiquario come un archeologo deve scavare nel profondo delle esigenze del collezionista, stabilendo un rapporto quasi simbiotico di conoscenze. La collezione diviene esercizio intellettuale, emozione della scoperta, piacere della visione, godimento del possesso, che nel caso del mercante è fugace ma intenso, ma soprattutto galleria ideale di un uomo e del suo gusto, un piccolo paradiso terrestre dove l’anima può confrontarsi con l’arte, la bellezza, la perfezione di un oggetto, di un colore, di una forma in equilibrio con il tempo, che la realtà rende passeggero.

La vibrazione di un sguardo, di un’idea che prende sostanza, di un riverbero d’assoluto che diviene bellezza, si svelano con disarmante semplicità in un aforisma del filosofo illuminista David Hume, che meglio di infinite considerazioni racchiude le ragioni manifeste e recondite del vivere entro e per la gioia estetica: «La bellezza delle cose esiste nella mente che le contempla».