Aetas Felicior
di Michela Davo
Nel 1642 i corpi nudi di Adamo ed Eva, dipinti dal Masaccio nella celebre Cacciata dei progenitori dall’Eden, vengono per così dire abbelliti con qualche foglia di fico.
Qualche anno prima, nel 1580, a Venezia, senza l’autorizzazione del suo autore, era stata data alle stampe un’opera destinata a distinguersi nella stagione dei poemi epico-cavallereschi, che aveva avuto in Pulci, in Boiardo e in Ariosto i suoi primi grandi rappresentanti. La Gerusalemme liberata, ripubblicata a Parma l’anno successivo – stavolta con il benestare di chi l’aveva scritta e l’avrebbe tanto a lungo rimaneggiata – sarebbe riuscita a consacrare alla fama il nome di Torquato Tasso, che fu incapace, tuttavia, di godere della gloria a lui tributata, essendo richiuso nell’ospedale di Sant’Anna. Mentre fa proseliti la ripresa del genere pastorale, spesso tradotto in favole pastorali (di cui, per altro, anche lo stesso Tasso si occupò, si pensi all’Aminta), con la sua rappresentazione di paesaggi naturali incantati, popolati da ninfe e satiri (eppure, spesso, ormai corrosi dalla modernità, dalla percezione dello scorrere del tempo, dal vizio), nella Gerusalemme liberata compare l’antico adagio che contrappone il giardino alla selva.
Nel XIII canto, i cavalieri cristiani, a turno, tentano di avanzare nella selva di Saron, per accaparrarsi legna utile a fabbricare le macchine d’assedio per espugnare Gerusalemme. Si trovano, però, avvolti da una selva non solo oscura, ma anche esplicitamente infernale, animata da quelli che vengono chiamati cittadini d’Averno (XIII, 7, 7), invocati dal mago Ismeno e chiamati ad albergare nei tronchi e nelle foglie degli alberi. Anche il valoroso Alcasto («l’uom di temerità stupida e fera», XIII, 24, 3), inizialmente sprezzante di fronte al ritorno dei compagni intimoriti, è infine costretto a indietreggiare, «Fugge egli al fine, e ben la fuga è tarda, / qual di leon che si ritiri in caccia, / ma pure è fuga; e pur gli scote il petto / timor, sin a quel punto ignoto affetto.» (XIII, 28, 5-8). Poco dopo, nel XVI canto, quasi a segnare una metaforica fuoriuscita dal primo luogo e l’ingresso in un nuovo inganno, stavolta però dalla parvenza paradisiaca, Carlo e Ubaldo, due cavalieri cristiani, entrano nel palazzo di Armida, arrivando sino a un giardino meraviglioso, in cui la natura e l’artificio umano non solo convivono armoniosamente, ma divengono addirittura indistinguibili («Stimi (sì misto il culto è col negletto) / Sol naturali e gli ornamenti, e i siti. / Di natura arte par, che per diletto / L’imitatrice sua scherzando imiti.» XVI, 10, 1-4). In quel tripudio di fiori e canti d’uccelli, viene segnalata anche la presenza di una pianta di fico appena nata, non distante da una simile, ma più antica.
«Natanaele, ti racconterò i giardini più belli che ho veduto.», inizia con queste parole la rassegna di un narratore fittizio, forse lo stesso André Gide, che, ne Les nourritures terrestres, elenca alcuni tra i giardini più noti al mondo
La convivenza di artificio e natura, che Tasso considerava ancora un tema narrativamente interessante, è in Gide oramai canonizzato. Se alla natura continua ad appartenere la selva, come nella tradizione cristiana non si dà giardino senza una qualche forma di artificio, dove con artificio non si intende soltanto il prodotto della tecnica umana, ma anche l’inganno, o l’ingannevole.
Boboli,a Firenze è senza fiori; a Siviglia, nel cortile di una moschea, circondato da mura e senza ombra, crescono gli aranci; il giardino persiano di Alcazar ammalia con giochi d’acqua, vasche di marmo – in cui si bagnano le amanti del re –, con i narcisi bianchissimi e lunghi viali costeggiati da mirti e cipressi: nascosto da tutta questa meraviglia, un albero gigantesco tiene imprigionato un passerotto. Ci sono i giardini di Mossoul, colmi di rose – ma chi racconta non ci è mai stato: li sogna; e il bosco di limoni, al primo assaggio aspri, a Malta; i giardini di piccole città di cui si è scordato il nome e dove non si sa più tornare, quelli algerini e poi Tunisi, dove il solo giardino è il cimitero.
Ma se quel che è dolce, Natanaele, è, dopotutto, l’erba del Sahel, come ti ha scritto Gide, dobbiamo forse soltanto riconsegnarci alla celebre chiusa del Candide di Voltaire e, con lei, alla necessità a riconoscere il nostro Boboli senza fiori, il nostro personalissimo albero della conoscenza del bene e del male, che, infine, esiste in cielo e in terra.