Radical Light
Disegnare la luce
di Patrizia Catalano
Il testo qui riportato fa riferimento all’intervento fatto in qualità di Ambassador per l’Italian Design Day 2023 il 10 maggio presso l’Ambasciata di Berna su invito dell’Ambasciatore Silvio Mignano e del responsabile di ICE dott. Andrea Domenico Ambra,un evento promosso presso le sedi estere del Ministero degli Esteri dal titolo: “La qualità che illumina. L’energia del Design per le Persone e per l’Ambiente”.
Italia del Dopoguerra, la ricostruzione di un Paese segnato dal conflitto. Poi il miracolo del boom economico degli anni Cinquanta, una ripartenza in salita che ha portato il Belpaese a segnare dei risultati importanti in moltissimi ambiti produttivi. In questo clima di effervescenza generale si manifesta un fenomeno che parte quasi come una scommessa di alcuni imprenditori della piccola media industria del nord Italia: è il design o meglio, è il design che nasce attorno al sistema dell’arredo per la casa. Le piccole industrie spesso familiari e semi artigianali, affiancate da una serie di abili architetti, in quegli anni danno vita a un codice tutto italiano che comprende mobili, imbottiti, sistemi per ufficio, cucine, sanitari e, naturalmente lampade. Quest’ultimo settore è quello che più si è caratterizzato per energia, creatività e innovazione.
Il motivo è ancora una volta da cercare nella storia del Belpaese poiché la luce ha sempre avuto un valore significativo nella cultura del progetto italiano.
Basti ricordare le straordinarie scenografie che venivano allestite in occasione di feste civiche o religiose nelle città italiane in epoca rinascimentale e barocca: la luce era l’elemento principe delle installazioni, portava la trasfigurazione dei luoghi, generava emozione, scatenava l’immaginazione.
Ancora oggi nelle città del Sud persistono quelle che vengono normalmente chiamate “luminarie” strutture luminose che, come merletti ornamentali luminescenti, decorano strade piazze e palazzi in occasione di particolari ricorrenze e che, più recentemente, sono state anche utilizzate dal mondo della moda e dello spettacolo per creare occasioni di festa o di show.
Mi piace pensare alla luce come un elemento che è sempre stato nel Dna italiano: pensiamo alle luci sceniche e d’arredo dei teatri, dai più importanti teatri d’opera dove spesso ancora oggi campeggiano magnifici chandelier in cristallo, alle luci/lanterna dei teatri itineranti che per molti secoli hanno viaggiato portando la tradizione della Commedia Italiana di città in città per tutta l’Europa, alla Cupola Fortuny, una macchina di luce che Mariano Fortuny y Mandrazo (grande ed eclettico artista spagnolo che visse tutta la sua vita a Venezia), relizzò per il Teatro alla Scala nel 1934.
Forse è proprio questa eredità che ha portato il design italiano del Dopoguerra a diventare una fucina di prodotti iconici.
Milano è stata la palestra privilegiata di questo fenomeno, grazie alle sue Triennali il design italiano ha cominciato a dare un importante segno di vitalità. Qui hanno cominciato a esporre alcune aziende illuminotecniche tra cui Arteluce che portò grazie al suo fondatore Gino Sarfatti i primi straordinari apparecchi illuminotecnici inseriti in allestimenti di ambienti domestici creati da architetti dell’epoca (Albini-Helg, Cini Boeri, Ico Parisi, Vittoriano Viganò).
Negli anni che seguono, si profila un nuovo modo di concepire gli arredi: si passa dal progetto sartoriale realizzato per un singolo committente a un sistema ‘pret a porter’, si arriva al design del prodotto in serie per dare vita a una nuova idea di casa. Una casa moderna, una casa per tutti. Ma standardizzazione non blocca la creatività, tutt’altro.
Gli anni del Boom Economico sanciscono una vera escalation del sistema design italiano che culminerà nel 1973 al MoMA di New York con la mostra The New Domestic Landscape a cura di Emilio Ambasz. Da allora il Made in Italy diventerà un brand, riconosciuto e universalmente apprezzato.
E sempre di più gli architetti italiani si prestano al gioco collaborando con un buon numero di imprenditori ‘illuminati’, mettendo a punto collezioni di lampade in serie. Da terra, da tavola, da soffitto, da casa o da ufficio con la funzione di illuminare in modo teatrale oltre che funzionale sia gli ambienti domestici che quelli pubblici
Tra gli anni ’60 e ’70 si affacciano sulla scena alcuni dei più rappresentativi progettisti italiani votati al design: Achille e Pier Giacomo Castiglioni con le icone disegnate per Flos, Vico Magistretti che sancisce un rapporto di feconda collaborazione con Ernesto Gismondi in Artemide, Gae Aulenti tra le poche autrici femminili attive in quegli anni che disegnerà con Martinelli Luce la famosa Pipistrello e altre lampade, Angelo Mangiarotti che nel 1967 sperimenterà le potenzialità del vetro di Murano con collezione Giogali di Vistosi, Joe Colombo il più anticipatore e visionario di questa famiglia di pionieri e la sua collaborazione con O’luce.
Parallelamente a quello che possiamo definire il sistema del design industriale, viene a crearsi un movimento di architetti che si concentrano sul design come forma più legata all’espressività dell’oggetto che alla sua stretta funzione. Si comincia a definire la lampada come un oggetto particolare all’interno del Sistema Arredo “una lampada è una lampada quando è accesa. Quando è spenta diventa una scultura”.
Stiamo parlando del movimento radical design come lo conia Germano Celant nel 1969. Superstudio, Archizoom, UFO e altri, sono dei gruppi che si inseriscono con i loro progetti tra il mondo dell’arte e quello delle arti industriali. Siamo nell’epoca della contestazione studentesca in cui nelle Facoltà di Architettura di Milano, Firenze, Torino i giovani lavorano con volontà di andare oltre il mondo tradizionale del progetto.
Le immagini selezionate fanno riferimento al rapporto molto stretto che si è creato in quegli anni tra questi due mondi, quello del design industriale e quello Design e Arti Visive, due realtà che normalmente convivevano anche all’interno degli spazi domestici. Ed evidenziano come il tema della luce sia stato un fervido territorio di incontro e di relazione tra le due discipline proprio perché ‘la lampada’ è al tempo stesso un oggetto a forte valenza simbolica oltre che funzionale. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: molti di questi pezzi radical, che spesso si limitavano ad essere solo dei prototipi, pezzi unici o limited edition, hanno incuriosito, grazie alla mostra di Ambasz al MoMA il pubblico internazionale.
Hanno entusiasmato importanti collezionisti. Tra cui, uno per tutti, lo statunitense Dennis Freedman che raccolse la più importante collezione di opere di Radical Design realizzate tra il 1965 e il 1985. Le lampade Radical qui pubblicate fanno parte della sua collezione oggi affidata al Museum di Fine Arts di Houston pubblicate nel volume “Radical. Italian Design 1965 – 1985. The Dennis Freedman Collection, by Cindy Strauss, edited by The Museum of Fine Arts, Houston in association with Yale University Press, New Haven and London”.