A casa di Bruno Caruso
di Fabio Macaluso
Ho conosciuto Bruno Caruso nella seconda metà degli anni Ottanta dello scorso secolo. Quando l’ho incontrato ero molto emozionato perché Bruno è stato sempre considerato dai borghesi di Palermo un personaggio straordinario, addirittura mitico. E io non facevo eccezione. Eppure Bruno aveva lasciato Palermo nei primi anni Cinquanta, quando non era ancora trentenne. Bruno era il segno di una città, insieme a Renato Guttuso, che - più anziano di una quindicina d’anni - lasciò Palermo nel 1933. I due furono parte degli stessi circoli artistici e amici fino alla diatriba tra Leonardo Sciascia ed Enrico Berlinguer in ordine al caso Moro, di cui dirò dopo. Bruno aveva una curiosità onnivora e divertita e la sua città era il contesto ideale per il suo percorso artistico. Forse il lavoro che meglio rappresenta il legame tra Bruno e Palermo è “La Real Casa dei Matti”, un ciclo di disegni realizzati al manicomio Pindemonte tra il 1953 e il 1957, quando Bruno vi trascorse diversi periodi di studio e di creazione.
Lasciamo parlare Bruno: «L’antico Manicomio di Palermo detto “La Real Casa dei Matti” sorse alla fine del Settecento per volontà del Barone Pisani, un aristocratico illuminato che riteneva di poter curare o alleviare i tormenti della follia con la musica e la gentilezza. Santi propositi! Ma l’utopia non durò a lungo e le inesorabili condizioni del manicomio presero il sopravvento e lasciarono i poveri ricoverati in balìa di se stessi. Il manicomio tornò ad essere uno dei luoghi più terribili della città, peggio dell’Ucciardone, il carcere cittadino. Ma la città stessa divenne un manicomio, tormentata dalla miseria, dalla violenza e dalla fame. Sono trascorsi tanti anni da quando, in tempo di guerra, i B-52 bombardavano Palermo, da quando tutto il manicomio tremava sotto le deflagrazioni delle bombe e tutti i malati rinchiusi fra quelle grigie mura tremavano anche loro fra i violenti sussulti, senza capire cosa stesse accadendo. S’era creato attorno a loro, dopo tanta indifferenza e altrettanta violenza, un clima di vibrante solidarietà. E io stesso mi trovai sospinto da forze sconosciute ad andare a dare una mano, a collaborare con i medici volenterosi proprio mentre si sperimentavano gli psicofarmaci in sostituzione delle camicie di forza, dei letti di contenzione e delle celle di rigore. Si capì che non ce n’era bisogno o che si poteva fare di meglio. Palermo visse la sua follia nei catoi, nei quartieri cittadini della Vucciria, del Capo, di Ballarò, di Danisinni e la cinghia si stringeva sempre più. Il Manicomio tornò ad essere quel che doveva essere: un luogo di reclusione senza speranza. A chi non stava bene, camicia di forza, letto di contenzione o cella di rigore. Finché non si aprì uno spiraglio con le cure degli psicofarmaci».
La città come un manicomio è una metafora potente e, in questo caso, fondata: Palermo è stata la città manicomio per eccellenza, segnata da miseria, violenza e fame fino a un paio di decenni fa e mantiene tratti di follia nella sua contemporaneità, magari riflessi di una vitalità cinica e insopprimibile. Forse Bruno aveva scelto di vivere a Roma (altra città manicomiale per storia e carattere) per proseguire la sua vita nella maniera che gli piaceva di più: lavorare e unire la propria rete di amici e colleghi al suo studio al Colosseo. Bruno era il miglior amico di Leonardo Sciascia e gran parte della intellighenzia siciliana frequentava il suo studio. Il personaggio più affascinante che vi ho conosciuto è stato il latinista Antonio Mazzarino, un uomo che raccontava aneddoti coltissimi parlando indifferentemente in italiano e in latino ed era affar tuo se riuscivi a cogliere la trama del racconto. Anche Bruno era un grande aneddotista, bastava guardare gli oggetti del suo studio per coglierne l’eccezionale esperienza: dal calco della mano di Jorge Luis Borges alla mordacchia di Giordano Bruno fino all’incredibile collezione di teschi che era custodita in una sorta di cappella protetta da una riproduzione di un guerriero ussaro di dimensioni naturali. Ricordo Bruno quando amava raccontare i suoi incontri con Ho Chi Min in Vietnam, le conversazioni con Mario Praz (che lui nominava tranquillamente pur essendo il grande scrittore tacciato di essere uno iettatore), gli incontri a casa dei Rockfeller negli Stati Uniti con Ernst Kantorowicz, il più importante biografo di Federico II, l’imperatore che Bruno amava incondizionatamente forse perché affetto dalla nostalgia di un tempo fastoso che non potrà più ritornare.
Nello studio di Bruno lavorava una donna minuta, che curava quello spazio con grande discrezione, facendosi vedere appena. Lei era nota tra chi frequentava l’atelier del Colosseo per la pasta con la salsa, le melenzane fritte e la ricotta salata che cucinava con perizia per gli ospiti del maestro. C’era un episodio che Bruno amava raccontare quando la domestica non era presente e che turbava sempre Leonardo Sciascia. La poveretta conviveva con un generale dell’aeronautica da un paio di decenni e il militare non si decideva a sposarla. Per tale ragione chiedeva al grande maestro di chiamare il generale e intercedere per lei. Bruno ha resistito tanto tempo, ma dietro l’insistenza della donna un giorno si decise di telefonare al generale. Dopo qualche convenevole, Bruno perorò la causa della domestica e chiese al militare di sposarla. L’ufficiale, anche lui siciliano, fece trascorrere qualche secondo e poi chiese: «Maestro, lei sposerebbe una donna che convive con un uomo da venti anni?», gelando Bruno che non trovò motivi per reagire. Ogni volta che Bruno raccontava questa storia, Sciascia, scandalizzato, rimarcava che era proprio il generale l’uomo con cui la domestica conviveva da tanto tempo, dando modo a Bruno di sottolineare che solo un siciliano fosse in grado di rigettare la richiesta di matrimonio con un’argomentazione diabolica e paradossalmente insuperabile.
Questa sicilianità è testimoniata in Caruso in un piccolo disegno che ho scovato a casa del suo storico gallerista, Leonardo La Rocca. Bruno aveva disegnato un sesso maschile moscio e sopra vi aveva collocato lo strillo di una mostra di Renato Guttuso che si sarebbe tenuta proprio alla galleria di La Rocca. Ho chiesto invano di comprare la matita di Bruno, conoscendo la storia che vi stava dietro.
Il 6 maggio 1980 Sciascia aveva appreso da Enrico Berlinguer in un incontro cui era presente anche Renato Guttuso come il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro avesse visto il coinvolgimento dei servizi segreti cecoslovacchi e di questo aveva dato informazione durante un’audizione di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. Berlinguer non la prese bene e diede incarico ai suoi legali di querelare Sciascia per diffamazione aggravata. In altri termini, Berlinguer sconfessò Sciascia e chiamò a testimoniare a suo favore Guttuso che, nello sconcerto di Sciascia e di tutto il circolo intellettuale siciliano, smentì l’amico di una vita sostenendo la tesi del segretario del Partito Comunista. Caruso dopo molti anni realizzò il disegnino che ho descritto prima, una maniera ironica ma inappellabile di qualificare Guttuso come un uomo inaffidabile, o, peggio, un traditore. E difatti nessun uomo della cerchia intellettuale siciliana era al funerale del pittore bagherese nel gennaio del 1987, lasciandolo solo nel momento più solenne.
Mi rendo conto di aver parlato appena dell’arte di Bruno, ma preferisco raccontarne il tratto umano e la generosità e ho un ultimo piccolo racconto: quando seppe che mi stavo separando dalla mia compagna, mi chiamò chiedendomi di raggiungerlo con urgenza. Giunto al Colosseo lo trovai con Anna Maria mentre la ritraeva sulla sua tela. Non disse nulla intorno alle nostre difficoltà, ma regalò il ritratto ad Anna Maria abbracciandola con tenerezza. Seguirono un pranzo alla finestra sul Colosseo e parecchie risate, che addolcirono il difficile momento che Anna Maria e io stavamo vivendo.
Bruno è stato uno dei miei migliori amici e lo ricordo con gioia e malinconia.
Fabio Macaluso, 19 marzo 2025